Con un sensore connesso le piante di pomodoro “dicono” quando hanno bisogno d’acqua (e il consumo si dimezza) (a cura di Valeriano Musiu - Corriere della Sera 4.06.2024)
Le piante di pomodoro hanno trovato la loro voce. E, grazie a un sensore all’avanguardia che monitora la loro salute in tempo reale, riescono a dirci quando hanno bisogno di essere irrigate, e con quanta acqua. Il sensore si chiama Bioristor ed è il frutto di una collaborazione tra l’Istituto dei Materiali per l’Elettronica e il Magnetismo del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Imem-Cnr) e Mutti, azienda leader nel mercato dei derivati di pomodoro. Il gruppo, impegnato da anni nella ricerca di soluzioni per rendere l’agricoltura più resistente agli effetti della crisi climatica, come alte temperature e lunghi periodi di siccità, ha deciso di investire in questa tecnologia innovativa, applicandola prima su una manciata di piante e poi su un campo intero. I risultati dei primi test sono incoraggianti: «Grazie al sensore Bioristor», racconta Massimo Perboni, direttore del servizio agricolo di Mutti, «in media abbiamo usato il 45 per cento di acqua in meno rispetto alle metodologie convenzionali».
L’azienda Mutti e Imem-Cnr hanno avviato la prima sperimentazione sulle piante di pomodoro di Bioristor. Inserito nel fusto, il sensore legge in tempo reale i flussi della linfa e riesce a capire in anticipo quando bisogna irrigare le piante e con quanta acqua.
Per capire la portata di questo risultato bisogna fare un passo indietro: «L’agricoltura è responsabile del 70 per cento del consumo di acqua dolce del pianeta», ricorda Perboni: «Per quanto riguarda la coltivazione di pomodori, sappiamo che in media ogni pianta richiede cento litri d’acqua. Se pensiamo che in un solo ettaro ci sono 33mila piante, parliamo di un consumo idrico che va dai tremila ai quattromila metri cubi d’acqua». E questo nonostante la pianta di pomodoro sia tra quelle che ne consumano meno: per produrne un chilo nel nord Italia, infatti, servono tra i 40 e i 50 litri d’acqua, mentre la stessa quantità di mais richiede tra i 300 e i 400 litri. Di qui, l’importanza delle soluzioni come Bioristor che, se applicato su larga scala, permetterebbe di fare la differenza in termini di consumi idrici.
Come funziona Bioristor
Lo sviluppo del sensore comincia nel 2017. Nella prima fase, questo transistor organico elettrochimico era stato ideato per monitorare le performance degli sportivi analizzando il loro sudore. Qualche anno dopo è arrivata l’intuizione di applicarlo sulle piante come kiwi, vite, melo e pomodoro: «Il sensore è costituito da due fili tessili biocompatibili. Attraversa il fusto della pianta da parte a parte in due punti diversi e monitora il flusso degli ioni che passano nella linfa. Semplificando, si può dire che fa le analisi del sangue della pianta», racconta Michela Janni, ricercatrice di Imem-Cnr, che ha portato le sue competenze di fisiologa vegetale nello sviluppo del progetto.
Un’infografica Cnr spiega il funzionamento del sensore Bioristor
Ma non è tutto. Il sensore, che grazie all’energia fotovoltaica e al sistema di connessione comunica direttamente con gli agricoltori, «avverte l’alternarsi del giorno e della notte e, in futuro, potrà dirci quando la pianta ha bisogno di essere fertilizzata e quando è attaccata dai patogeni», continua Janni. La base attuale, però, rimane la capacità di interpretare lo stato idrico delle piante, potenziata dall’Intelligenza Artificiale: «Analizzando i dati raccolti dal 2017 a oggi, abbiamo messo a punto un algoritmo che rileva i segnali di stress della pianta con 24 ore di anticipo». Per promuovere lo sviluppo di Bioristor anche in ottica commerciale, il Cnr ha fondato la startup PlantBit: «Attualmente il sensore dev’essere installato dai nostri tecnici. In futuro puntiamo a far sì che sia l’agricoltore stesso a poterlo applicare».
Sensori in campo
Per Mutti la sperimentazione di Bioristor è cominciata nel 2019 su una manciata di piante. Un punto di partenza che nel corso del tempo ha portato ad applicazioni più estese di questa tecnologia: «L’anno scorso abbiamo deciso di aumentare gli investimenti nel progetto Cnr e fare un passo in più, coinvolgendo il nostro campo di produzione a Foggia, dove coltiviamo il nostro pomodoro lungo». La scelta di Foggia, spiega Perboni, non è casuale: «È una zona particolarmente sensibile dal punto di vista idrico,e spesso la siccità rende difficile approvvigionarsi dai pozzi e dagli invasi».
Meno acqua e più qualità
L’applicazione di Bioristor alle piante di pomodoro non è stato un processo scontato: «I pomodori sono piante che hanno un ciclo di vita breve, attorno ai quattro mesi. E poi hanno un fusto basso e più sottile rispetto ad altre specie, quindi la sfida era trovare un modo di applicare il sensore senza danneggiarle», spiega Perboni. La ricerca di metodi di coltivazione innovativi e più rispettosi dell’ambiente ha portato a un miglioramento della qualità. Per misurarla si fa riferimento a un parametro commerciale chiamato Brix, che indica la quantità di sostanze solubili all’interno del pomodoro. Più alto è il Brix, più il pomodoro è saporito: «Dimezzando l’uso di acqua, otteniamo frutti meno pesanti ma dal gusto più intenso. Un sistema che remunera i produttori sempre più in base alla qualità della materia prima».
Un impegno di lungo termine
Per Mutti Bioristor rappresenta un passo tecnologico coerente con una strategia di sostenibilità che guarda al lungo periodo e che, negli anni, ha messo al centro la gestione sostenibile dell’acqua. Questa risorsa nell’industria del pomodoro non serve solo a irrigare i campi, ma anche a lavare e trasportare i frutti senza danneggiarli. Per gestirla in modo più consapevole, Mutti è stata la prima azienda italiana, già nel 2010, a calcolare il proprio impatto sulle risorse idriche lungo tutta la filiera, dalla coltivazione al prodotto finito. Lo ha fatto avviando una partnership con Wwf Italia e il Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici grazie alla quale, tra il 2010 e il 2015, ha risparmiato il 4,6 per cento dell’acqua usata nella sua filiera agricola, pari a circa un miliardo di litri d’acqua.
«Grazie a queste collaborazioni abbiamo messo in atto una serie di misure per ottimizzare l’uso dell’acqua. Ad esempio, siamo passati dall’irrigazione a getto, poco efficiente, all’irrigazione a goccia, basata su piccoli tubi coordinati da una centralina che erogano l’acqua con maggiore frequenza e precisione». Lo stesso approccio è stato adottato anche negli stabilimenti produttivi: «L’acqua impiegata per lavare i pomodori viene recuperata e riutilizzata nella fase iniziale del ciclo che serve a spingere i pomodori giù dai camion», conclude Perboni.